Corsivo
Luciano Minervini, il nostro urlo
Ha fatto fermare lo sbarco di Sant'Antonio. Ha richiamato in vita la prima donna dell'hockey. Più della fede poté la voce salvifica di Minervini
martedì 1 ottobre 2019
12.03
Tempus fugit. Ma non è poi sempre così.C'è un tempo bellissimo per naufragarenei ricordi del cuore. Quelli che scivolanovia onda su onda quando c'erano le radiolibere. «Minervini ci sei?». «Mi ascoltate, studio?». Già, ricordo come fosse ieri.
La voce di Luciano Minervini, la voce del cuore dei fantastici anni 70-80 vissuti attraverso la radiolina portatile con cinghia da polso ed antennina spiegata per chi non poteva permettersi l'autoradio nella mano destra. Poi sono arrivati i frontalini, internet, le web-radio che hanno consegnato l'urlo «rete, rete, rete» di Luciano Minervini al museo dei ricordi.
Perché Luciano Minervini era come L'urlo disegnato dal Munch, eraadrenalina e nello stesso tempo inquietudine per quello che oggi avremmo ascoltato. Ovvero radiocronache incolori, senza una voce e un'anima. Michele Poli, uomodi sport e di hockey, è un malato di nostalgia: «È difficile - sottolinea dalla sua bacheca Facebook - seguire la radiocronaca disegnare con la mente le trame di gioco se la voce non è quella amica di Luciano».
Se lo scrive luiche oggi assiste il telecronista con la suaanalisi tecnica, è il caso allora di chiedere apapà o a nonno notizie agiografiche di Luciano Minervini. Agiografiche lo scrivo in grassetto e sottolineato per dare più enfasi alla parola.
Il perché è presto detto dallo stesso Luciano: «Correvano gli anni 80. Ahimè la donna più importante di sempre dell'hockey pugliese fu ricoverata d'urgenza e subì un gravissimo intervento chirurgico. Il chirurgo siera pronunciato con un responso drammatico dell'inferma che espresse due desideri. L'estrema unzione e la volontà di ascoltare per l'ultima volta la radiocronaca di Luciano Minervini della AFP».
Sapete come è andata a finire perla Gentildonna distesa sul capezzale conle cuffie incollate alle orecchie? Non si è più persa una radiocronaca di Luciano. Più della fede poté la voce salvifica di Minervini. Ancora notizie agiografiche.
Prima del 12 luglio 1982, prima che l'Italia di Pablito, re di Spagna, ammantasse di tricolore S. Antonio in processione, alcuni fedeli qualche anno prima durante lo sbarco avevano ammainato le vele della fede per incollarsi alla radiolina da polso. Volevano ascoltare non il santo rosario su Radio Maria ma la parola di Luciano Minervini su Radio Giovinazzo Centrale.
Un binomio da urlo: Radio Giovinazzo Centrale, padrona dell'etere locale, e l'urlo «rete, rete, rete» di Minervini che ti faceva sentire Re come Michele Salomone per il Bari con il suo «non ci credo, non è mai successo prima». E non è mai successo prima che una radiolina ci facesse piangere per uno scudetto vinto o disperare per una Coppa dei Campioni svanita.
Di poco a lato. «Serviva a salvare le apparenze anche quando la pallina superava la staccionata di gioco» - ricorda Luciano. Quel «Di poco a lato» è stata l'espressione più ricorrente nei suoi racconti radiofonici. Un po' come il «quasi gol» di Nicolò Carosio. Faceva parte del gioco. Un vero e proprio stile di fare comunicazione: campanilistico e dirompente della parola.
Serviva a tenere incollata alla radiolina una città intera, a non perdere la speranza di vittoria anche quando la prestazione dell'AFP non era da prima della classe. Stile Luciano, possiamo definirlo con quel «Di poco a lato» pronunciato in qualsiasi angolo del mondo e in qualsiasi condizione logistica e climatica. Scivolano i ricordi di Luciano dalle diverse piste.
A Bruxelles, sotto la pioggia: «In assenza di tribuna o gradinate con la cornetta del telefono nella mano sinistra, dividevi lo sguardo tra la pista di gioco e le formazioni appuntate nella mano destra. In posizione decentrata, in piedi, su uno sgabello gentilmente offerto dagli addetti del bar raccontavi la partita con il beneficio dell'inventario». C'è di più.
A Follonica, sulla vecchia Pista dei Pini, la radiocronaca divenne epica: «In assenza di una postazione telefonica di servizio, coperto dal pubblico che gremiva la recinzione di gioco, da una cabina telefonica a gettoni, sopra una cassa vuota di birra, con la busta piena dei gettoni, ricostruivo la partita scorgendo solo le teste dei giocatori in movimento».
Le chiamavamo radiocronache ma a ripensare le condizioni di trasmissione spesso al limite della messa in onda attraverso non il microfono ma una cornetta del telefono, con la linea che poteva cadere da un momento all'altro, era il caso di chiamarle cronache telefoniche. Ancor più difficili di una radiocronaca vera, non avendo il ritorno in cuffia, avendo la sensazione di non parlare con nessuno e dovendo alzare la voce oltre l'inverosimile.
Luciano e Marchiselli. «Devo ringraziare un mago dell'etere, Michelangelo Marchiselli. S'inventava radiocronache impossibili. Pensate che prima di diffondere il segnale attraverso la sua radio, si avvaleva di alcuni suoi collaboratori che raccoglievano con il telefono la mia voce prima di amplificarla. Un vero colpo di genio». Se non ci fossero stati la radio e il «Nicolò Carosio» giovinazzese a bordo pista, difficilmente l'hockey sarebbe entrato dentro le case e trasformato Giovinazzo in una città che camminava sui pattini.
La confessione di Luciano: «Lo dico adesso, a distanza di 30 anni. Mi perdonerà sicuramente Michelangelo. Ma quando andavo all'estero spesso mi imbattevo in postazioni di altre emittenti radiofoniche con un'artiglieria da vere macchine da guerra. Io ero piccolo piccolo. Ero però il Giovinazzo, per destino terribilmente invincibile». E forse questa confessione ingigantisce la figura di un piccolo editore radiofonico ma stratega bislacco della comunicazione.
Grazie alla pubblicità di macellai e mobilieri, Marchiselli con la sua radio ci ha fatto palpitare anche con la Nazionale di hockey, perché la sentivamo nostra. Allora Giovinazzo vestiva di azzurro i 4/5 del quintetto titolare! E qui che mi ritorna in mente l'immagine dell'Urlo del Munch che tradotto in stereofonia rassomiglia un po' all'urlo liberatorio di Luciano Minervini.
È il 14 settembre 1988, giochiamo a La Coruna. Marzella segna a 12 secondi dalla fine contro la Spagna. Siamo noi che matiamo il toro. Siamo noi i campioni del mondo. No, non è il solito urlo «rete, rete, rete» di Luciano È un urlo frammisto a lacrime di gioia. È il nostro urlo. L'urlo a non arrendersi. Mai!
La voce di Luciano Minervini, la voce del cuore dei fantastici anni 70-80 vissuti attraverso la radiolina portatile con cinghia da polso ed antennina spiegata per chi non poteva permettersi l'autoradio nella mano destra. Poi sono arrivati i frontalini, internet, le web-radio che hanno consegnato l'urlo «rete, rete, rete» di Luciano Minervini al museo dei ricordi.
Perché Luciano Minervini era come L'urlo disegnato dal Munch, eraadrenalina e nello stesso tempo inquietudine per quello che oggi avremmo ascoltato. Ovvero radiocronache incolori, senza una voce e un'anima. Michele Poli, uomodi sport e di hockey, è un malato di nostalgia: «È difficile - sottolinea dalla sua bacheca Facebook - seguire la radiocronaca disegnare con la mente le trame di gioco se la voce non è quella amica di Luciano».
Se lo scrive luiche oggi assiste il telecronista con la suaanalisi tecnica, è il caso allora di chiedere apapà o a nonno notizie agiografiche di Luciano Minervini. Agiografiche lo scrivo in grassetto e sottolineato per dare più enfasi alla parola.
Il perché è presto detto dallo stesso Luciano: «Correvano gli anni 80. Ahimè la donna più importante di sempre dell'hockey pugliese fu ricoverata d'urgenza e subì un gravissimo intervento chirurgico. Il chirurgo siera pronunciato con un responso drammatico dell'inferma che espresse due desideri. L'estrema unzione e la volontà di ascoltare per l'ultima volta la radiocronaca di Luciano Minervini della AFP».
Sapete come è andata a finire perla Gentildonna distesa sul capezzale conle cuffie incollate alle orecchie? Non si è più persa una radiocronaca di Luciano. Più della fede poté la voce salvifica di Minervini. Ancora notizie agiografiche.
Prima del 12 luglio 1982, prima che l'Italia di Pablito, re di Spagna, ammantasse di tricolore S. Antonio in processione, alcuni fedeli qualche anno prima durante lo sbarco avevano ammainato le vele della fede per incollarsi alla radiolina da polso. Volevano ascoltare non il santo rosario su Radio Maria ma la parola di Luciano Minervini su Radio Giovinazzo Centrale.
Un binomio da urlo: Radio Giovinazzo Centrale, padrona dell'etere locale, e l'urlo «rete, rete, rete» di Minervini che ti faceva sentire Re come Michele Salomone per il Bari con il suo «non ci credo, non è mai successo prima». E non è mai successo prima che una radiolina ci facesse piangere per uno scudetto vinto o disperare per una Coppa dei Campioni svanita.
Di poco a lato. «Serviva a salvare le apparenze anche quando la pallina superava la staccionata di gioco» - ricorda Luciano. Quel «Di poco a lato» è stata l'espressione più ricorrente nei suoi racconti radiofonici. Un po' come il «quasi gol» di Nicolò Carosio. Faceva parte del gioco. Un vero e proprio stile di fare comunicazione: campanilistico e dirompente della parola.
Serviva a tenere incollata alla radiolina una città intera, a non perdere la speranza di vittoria anche quando la prestazione dell'AFP non era da prima della classe. Stile Luciano, possiamo definirlo con quel «Di poco a lato» pronunciato in qualsiasi angolo del mondo e in qualsiasi condizione logistica e climatica. Scivolano i ricordi di Luciano dalle diverse piste.
A Bruxelles, sotto la pioggia: «In assenza di tribuna o gradinate con la cornetta del telefono nella mano sinistra, dividevi lo sguardo tra la pista di gioco e le formazioni appuntate nella mano destra. In posizione decentrata, in piedi, su uno sgabello gentilmente offerto dagli addetti del bar raccontavi la partita con il beneficio dell'inventario». C'è di più.
A Follonica, sulla vecchia Pista dei Pini, la radiocronaca divenne epica: «In assenza di una postazione telefonica di servizio, coperto dal pubblico che gremiva la recinzione di gioco, da una cabina telefonica a gettoni, sopra una cassa vuota di birra, con la busta piena dei gettoni, ricostruivo la partita scorgendo solo le teste dei giocatori in movimento».
Le chiamavamo radiocronache ma a ripensare le condizioni di trasmissione spesso al limite della messa in onda attraverso non il microfono ma una cornetta del telefono, con la linea che poteva cadere da un momento all'altro, era il caso di chiamarle cronache telefoniche. Ancor più difficili di una radiocronaca vera, non avendo il ritorno in cuffia, avendo la sensazione di non parlare con nessuno e dovendo alzare la voce oltre l'inverosimile.
Luciano e Marchiselli. «Devo ringraziare un mago dell'etere, Michelangelo Marchiselli. S'inventava radiocronache impossibili. Pensate che prima di diffondere il segnale attraverso la sua radio, si avvaleva di alcuni suoi collaboratori che raccoglievano con il telefono la mia voce prima di amplificarla. Un vero colpo di genio». Se non ci fossero stati la radio e il «Nicolò Carosio» giovinazzese a bordo pista, difficilmente l'hockey sarebbe entrato dentro le case e trasformato Giovinazzo in una città che camminava sui pattini.
La confessione di Luciano: «Lo dico adesso, a distanza di 30 anni. Mi perdonerà sicuramente Michelangelo. Ma quando andavo all'estero spesso mi imbattevo in postazioni di altre emittenti radiofoniche con un'artiglieria da vere macchine da guerra. Io ero piccolo piccolo. Ero però il Giovinazzo, per destino terribilmente invincibile». E forse questa confessione ingigantisce la figura di un piccolo editore radiofonico ma stratega bislacco della comunicazione.
Grazie alla pubblicità di macellai e mobilieri, Marchiselli con la sua radio ci ha fatto palpitare anche con la Nazionale di hockey, perché la sentivamo nostra. Allora Giovinazzo vestiva di azzurro i 4/5 del quintetto titolare! E qui che mi ritorna in mente l'immagine dell'Urlo del Munch che tradotto in stereofonia rassomiglia un po' all'urlo liberatorio di Luciano Minervini.
È il 14 settembre 1988, giochiamo a La Coruna. Marzella segna a 12 secondi dalla fine contro la Spagna. Siamo noi che matiamo il toro. Siamo noi i campioni del mondo. No, non è il solito urlo «rete, rete, rete» di Luciano È un urlo frammisto a lacrime di gioia. È il nostro urlo. L'urlo a non arrendersi. Mai!