Eventi e cultura
"Il volo" ricorda il massacro giuliano-dalmata
In occasione del "Giorno del Ricordo" lettura scenica in sala San Felice
Giovinazzo - lunedì 9 febbraio 2015
12.48
Domani sera, in sala San Felice, a partire dalle ore 19.30, il collettivo Polartis si esibirà in una lettura scenica dal titolo "Il volo". Fortemente voluto dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Giovinazzo, lo spettacolo intende celebrare, attraverso il teatro, il "Giorno del Ricordo" in memoria delle vittime giuliano-istriano-dalmate. Il collettivo Polartis è composto da attori professionisti giovinazzesi di ben 6 compagnie diverse: Senza Piume, Aretè Ensamble, ResExtensa, l'Associazione Explorer, Kuziba Teatro e CinEthic.
Una lettura scenica che fa il paio con "Treblinka", lo spettacolo andato in scena per celebrare la "Giornata della Memoria" per le vittime della Shoah. «Un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica"». Così l'ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commentava il 10 febbraio del 2007 le vicende che macchiarono di sangue le terre giuliane, dalmate ed istriane alla fine della seconda guerra mondiale. Qualcuno l'ha definita la più grande tragedia italiana in tempo di pace. Di fatto la storia nazionale, almeno quella ufficiale, ha cancellato questa pagina nerissima fino al 2004, anno in cui, sotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi, il Parlamento approvò la legge che istituì il "Giorno del Ricordo", per non dimenticare le migliaia di connazionali morti scaraventati nelle foibe, cavità carsiche naturali profondissime, dai comunisti titini.
Dopo il tentativo fascista di italianizzare quelle terre di confine ed al termine del secondo conflitto, scattarono le rappresaglie slave. Le milizie comuniste agli ordini degli ufficiali titini applicarono sistematicamente l'eliminazione da quelle regioni di tutti gli italiani presenti. Lo fecero fisicamente, attraverso l'infoibamento, oppure nei gulag che allestirono nel dopoguerra, o ancora costringendoli alla fuga. Lo scopo era una vera pulizia etnica contro tutti coloro i quali si opponevano al regime titino. I morti recuperati da quelle cavità carsiche furono circa mille, ma diverse fonti attestano che in quegli anni hanno perso la vita tra le 6000 e le 7000 persone. Unico crimine essere italiani. Furono fucilati, morirono di stenti nei gulag slavi, saltarono su mine o furono gettati nelle foibe non solo ex fascisti (un numero assai esiguo), ma anche civili inermi che nulla ebbero a che fare col ventennio. Preti, donne, anche bambini piccolissimi dilaniati dalle mine, partigiani bianchi, socialisti ed addirittura comunisti italiani, i quali non volevano che Istria e Dalmazia diventassero jugoslave, furono uccisi. La foiba più grande, oggi monumento nazionale alla memoria, si trova a Basovizza, a pochi chilometri da Trieste. La maggior parte di quelle popolazioni fu obbligata a lasciare casa, terra e affetti. Furono 350.000 i profughi mandati nei campi di tutta Italia. Scappavano dalla morte e trovarono indifferenza, perché accusati di essere loro stessi slavi, apostrofati come zingari in senso dispregiativo, accolti dai comunisti italiani come fascisti. Era solo povera gente abituata a vivere in pace, in una terra dove le etnie e le religioni avevano saputo incontrarsi per secoli.
Per decenni l'Italia ha vissuto tutto questo con imbarazzo (lo racconta molto bene lo spettacolo "Magazzino 18" di Simone Cristicchi, in giro per lo stivale ed in onda domani alle ore 16.15 su Rai 5). Da una parte la Democrazia Cristiana, come riferito da Giulio Andreotti, non volle render tesi i rapporti di vicinato con Tito e la Jugoslavia. Dall'altra il Partito Comunista Italiano, come ha ricordato Walter Veltroni, non seppe mai guardare in faccia la realtà, rimanendo nella ferma convinzione che quei profughi fossero solo familiari di ex fascisti. Grazie ad una presa di coscienza comune, oggi la nostra nazione ricorda i morti e l'esodo giuliano-dalmata.
L'Assessora alla Cultura, Marianna Paladino, ha precisato: «Come accaduto per l'olocausto degli ebrei, abbiamo voluto utilizzare il linguaggio dell'arte per parlare di una tragedia, per imparare a riflettere senza stupide barriere ideologiche. È stata fatta al riguardo - ha continuato - una scelta che porterà ad un contatto empatico del pubblico con i personaggi di questa meravigliosa lettura scenica. Da parte mia c'è la convinzione - ha concluso - che solo la conoscenza di quei fatti porterà ad una cultura autentica della condivisione e ad un sentimento nazionale di piena solidarietà». Silenzio ed indifferenza negazionista saranno, ancora una volta, spazzati via dal teatro.
Una lettura scenica che fa il paio con "Treblinka", lo spettacolo andato in scena per celebrare la "Giornata della Memoria" per le vittime della Shoah. «Un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica"». Così l'ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commentava il 10 febbraio del 2007 le vicende che macchiarono di sangue le terre giuliane, dalmate ed istriane alla fine della seconda guerra mondiale. Qualcuno l'ha definita la più grande tragedia italiana in tempo di pace. Di fatto la storia nazionale, almeno quella ufficiale, ha cancellato questa pagina nerissima fino al 2004, anno in cui, sotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi, il Parlamento approvò la legge che istituì il "Giorno del Ricordo", per non dimenticare le migliaia di connazionali morti scaraventati nelle foibe, cavità carsiche naturali profondissime, dai comunisti titini.
Dopo il tentativo fascista di italianizzare quelle terre di confine ed al termine del secondo conflitto, scattarono le rappresaglie slave. Le milizie comuniste agli ordini degli ufficiali titini applicarono sistematicamente l'eliminazione da quelle regioni di tutti gli italiani presenti. Lo fecero fisicamente, attraverso l'infoibamento, oppure nei gulag che allestirono nel dopoguerra, o ancora costringendoli alla fuga. Lo scopo era una vera pulizia etnica contro tutti coloro i quali si opponevano al regime titino. I morti recuperati da quelle cavità carsiche furono circa mille, ma diverse fonti attestano che in quegli anni hanno perso la vita tra le 6000 e le 7000 persone. Unico crimine essere italiani. Furono fucilati, morirono di stenti nei gulag slavi, saltarono su mine o furono gettati nelle foibe non solo ex fascisti (un numero assai esiguo), ma anche civili inermi che nulla ebbero a che fare col ventennio. Preti, donne, anche bambini piccolissimi dilaniati dalle mine, partigiani bianchi, socialisti ed addirittura comunisti italiani, i quali non volevano che Istria e Dalmazia diventassero jugoslave, furono uccisi. La foiba più grande, oggi monumento nazionale alla memoria, si trova a Basovizza, a pochi chilometri da Trieste. La maggior parte di quelle popolazioni fu obbligata a lasciare casa, terra e affetti. Furono 350.000 i profughi mandati nei campi di tutta Italia. Scappavano dalla morte e trovarono indifferenza, perché accusati di essere loro stessi slavi, apostrofati come zingari in senso dispregiativo, accolti dai comunisti italiani come fascisti. Era solo povera gente abituata a vivere in pace, in una terra dove le etnie e le religioni avevano saputo incontrarsi per secoli.
Per decenni l'Italia ha vissuto tutto questo con imbarazzo (lo racconta molto bene lo spettacolo "Magazzino 18" di Simone Cristicchi, in giro per lo stivale ed in onda domani alle ore 16.15 su Rai 5). Da una parte la Democrazia Cristiana, come riferito da Giulio Andreotti, non volle render tesi i rapporti di vicinato con Tito e la Jugoslavia. Dall'altra il Partito Comunista Italiano, come ha ricordato Walter Veltroni, non seppe mai guardare in faccia la realtà, rimanendo nella ferma convinzione che quei profughi fossero solo familiari di ex fascisti. Grazie ad una presa di coscienza comune, oggi la nostra nazione ricorda i morti e l'esodo giuliano-dalmata.
L'Assessora alla Cultura, Marianna Paladino, ha precisato: «Come accaduto per l'olocausto degli ebrei, abbiamo voluto utilizzare il linguaggio dell'arte per parlare di una tragedia, per imparare a riflettere senza stupide barriere ideologiche. È stata fatta al riguardo - ha continuato - una scelta che porterà ad un contatto empatico del pubblico con i personaggi di questa meravigliosa lettura scenica. Da parte mia c'è la convinzione - ha concluso - che solo la conoscenza di quei fatti porterà ad una cultura autentica della condivisione e ad un sentimento nazionale di piena solidarietà». Silenzio ed indifferenza negazionista saranno, ancora una volta, spazzati via dal teatro.