Violenza sessuale nei bagni della stazione: assolto un 23enne
Assoluzione piena per un giovinazzese difeso dal penalista Francesco Mastro: «Colpevolezza mai esistita»
venerdì 9 dicembre 2016
06.00
Assoluzione piena, dinanzi alla prima sezione in composizione collegiale, dall'accusa di violenza sessuale per uno studente di Giovinazzo che ora ha 23 anni, denunciato in stato di libertà dai Carabinieri per aver abusato di una sua coetanea nei bagni della stazione cittadina, nel 2014: il Tribunale di Bari ha riconosciuto la sua professione di innocenza, arrivando alla conclusione che quel fatto «non sussiste».
La sentenza, con giudizio immediato, è stata pronunciata nella serata del 6 dicembre scorso, al termine di una lunga e articolata arringa del difensore dell'imputato, l'avvocato Francesco Mastro. Il penalista giovinazzese ha impugnato la versione della presunta parte offesa, sostenendo che ci fosse più di un motivo per ritenere provata quella del suo assistito. Versione opposta rispetto a quella della difesa della 23enne, che aveva chiesto la condanna, riportandosi alla richiesta del pubblico ministero secondo il quale la violenza fu consumata nei bagni della stazione ferroviaria, il 21 gennaio 2014.
Il rappresentante della pubblica accusa aveva contestato due aggravanti, i commi 1 e 2 dell'articolo 609 bis del codice penale: la violenza sessuale per costrizione, prevedendo come modalità esecutive la costrizione, la minaccia e l'abuso di autorità, e la violenza sessuale per induzione, determinando le modalità esecutive nell'abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa e l'inganno con sostituzione di persona.
Il processo è scaturito dalla denuncia della ragazza (una 23enne di Bitonto) sporta il 25 gennaio 2014 ai Carabinieri della locale Stazione, quattro giorni dopo la presunta violenza sessuale. Dagli atti risulta che l'amicizia iniziale fosse diventata forse infatuazione per lei, mentre lui non la corrispondesse. Cosa è successo dopo, quel 21 gennaio? La ragazza, giunta in paese all'insaputa dei genitori, sempre secondo quanto ricostruito, sostenne di aver vissuto un pomeriggio da incubo perché il 23enne la violentò nei bagni della stazione ferroviaria.
Il ragazzo, invece, ha sempre respinto l'accusa sostenendo di non aver mai violentato la giovane, che il 30 gennaio, sette giorni dopo l'episodio, s'è perfino rivolta al punto di pronto intervento del Policlinico di Bari per sottoporsi ad alcuni accertamenti medici. Peraltro non ci sarebbe nemmeno un testimone che possa confermare che questa violenza sessuale ci sia stata per davvero. La ragazzina ne ha parlato soltanto con la madre, (che si è insospettita dopo aver scoperto, il 24 gennaio, tre giorni dopo, le mutandine sporche di sangue) senza dire niente alle amiche, che sono state sentite.
Il 6 dicembre 2016, però, i giudici della prima sezione, hanno riconosciuto l'innocenza del ragazzo, «ma smontare l'impianto accusatorio dell'accusa è stato assai difficoltoso - spiega Mastro -. Ho dovuto far ricorso alla mia esperienza per cogliere quegli anelli mancanti nell'iter logico, ho dovuto far ricorso a tutte le mie conoscenze giuridiche e ho dovuto dar fondo a tutte le mie conoscenze del codice. Ho dovuto anche improvvisare in maniera maniacale, cambiando finanche strategia difensiva, pur di far emergere una verità che rischiava di essere offuscata».
Questo delicatissimo caso, infatti, ha posto l'accento sull'importanza e la necessità della figura dell'avvocato. «È chiaramente emerso che la Procura della Repubblica, nonostante l'assoluzione, in un primo momento fosse propensa a chiedere - continua l'avvocato Mastro - una condanna che evidentemente non poteva sussistere. Difendere un innocente diventa sempre qualcosa che deve farci pensare e tenere alta l'attenzione sulla reale difesa dei diritti del cittadino».
«È il secondo caso, tanto grave quanto delicato, dopo la difesa del giovinazzese Raffaele Sollecito, - conclude Mastro - per cui senza lo scrupoloso lavoro del difensore, la condanna sarebbe stata una amara realtà». Una vicenda dolorosa per tutti i protagonisti che merita ora silenzio e riflessione.
La sentenza, con giudizio immediato, è stata pronunciata nella serata del 6 dicembre scorso, al termine di una lunga e articolata arringa del difensore dell'imputato, l'avvocato Francesco Mastro. Il penalista giovinazzese ha impugnato la versione della presunta parte offesa, sostenendo che ci fosse più di un motivo per ritenere provata quella del suo assistito. Versione opposta rispetto a quella della difesa della 23enne, che aveva chiesto la condanna, riportandosi alla richiesta del pubblico ministero secondo il quale la violenza fu consumata nei bagni della stazione ferroviaria, il 21 gennaio 2014.
Il rappresentante della pubblica accusa aveva contestato due aggravanti, i commi 1 e 2 dell'articolo 609 bis del codice penale: la violenza sessuale per costrizione, prevedendo come modalità esecutive la costrizione, la minaccia e l'abuso di autorità, e la violenza sessuale per induzione, determinando le modalità esecutive nell'abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa e l'inganno con sostituzione di persona.
Il processo è scaturito dalla denuncia della ragazza (una 23enne di Bitonto) sporta il 25 gennaio 2014 ai Carabinieri della locale Stazione, quattro giorni dopo la presunta violenza sessuale. Dagli atti risulta che l'amicizia iniziale fosse diventata forse infatuazione per lei, mentre lui non la corrispondesse. Cosa è successo dopo, quel 21 gennaio? La ragazza, giunta in paese all'insaputa dei genitori, sempre secondo quanto ricostruito, sostenne di aver vissuto un pomeriggio da incubo perché il 23enne la violentò nei bagni della stazione ferroviaria.
Il ragazzo, invece, ha sempre respinto l'accusa sostenendo di non aver mai violentato la giovane, che il 30 gennaio, sette giorni dopo l'episodio, s'è perfino rivolta al punto di pronto intervento del Policlinico di Bari per sottoporsi ad alcuni accertamenti medici. Peraltro non ci sarebbe nemmeno un testimone che possa confermare che questa violenza sessuale ci sia stata per davvero. La ragazzina ne ha parlato soltanto con la madre, (che si è insospettita dopo aver scoperto, il 24 gennaio, tre giorni dopo, le mutandine sporche di sangue) senza dire niente alle amiche, che sono state sentite.
Il 6 dicembre 2016, però, i giudici della prima sezione, hanno riconosciuto l'innocenza del ragazzo, «ma smontare l'impianto accusatorio dell'accusa è stato assai difficoltoso - spiega Mastro -. Ho dovuto far ricorso alla mia esperienza per cogliere quegli anelli mancanti nell'iter logico, ho dovuto far ricorso a tutte le mie conoscenze giuridiche e ho dovuto dar fondo a tutte le mie conoscenze del codice. Ho dovuto anche improvvisare in maniera maniacale, cambiando finanche strategia difensiva, pur di far emergere una verità che rischiava di essere offuscata».
Questo delicatissimo caso, infatti, ha posto l'accento sull'importanza e la necessità della figura dell'avvocato. «È chiaramente emerso che la Procura della Repubblica, nonostante l'assoluzione, in un primo momento fosse propensa a chiedere - continua l'avvocato Mastro - una condanna che evidentemente non poteva sussistere. Difendere un innocente diventa sempre qualcosa che deve farci pensare e tenere alta l'attenzione sulla reale difesa dei diritti del cittadino».
«È il secondo caso, tanto grave quanto delicato, dopo la difesa del giovinazzese Raffaele Sollecito, - conclude Mastro - per cui senza lo scrupoloso lavoro del difensore, la condanna sarebbe stata una amara realtà». Una vicenda dolorosa per tutti i protagonisti che merita ora silenzio e riflessione.