Porto, i Carabinieri: «Le indagini continuano»
Al centro della nuova inchiesta le attività di pesca e la gestione dell'area portuale
mercoledì 29 luglio 2015
15.36
Il controllo del mercato della pesca, degli specchi d'acqua, perfino degli scogli. Tutte le attività che il litorale di Giovinazzo e Santo Spirito poteva offrire, secondo gli inquirenti, dovevano essere controllate dalla famiglia Arciuli, secondo cui valeva una regola sola: «Qui ci siamo noi che comandiamo e nessun altro!».
Le indagini sull'omicidio del 21enne Gaetano Spera, che hanno portato all'esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per il 19enne Vito Arciuli, il 23enne Luca Lafronza, il 26enne Ignazio Chimenti e il 32enne Pio Mauro Sparno oltre al fermo di un 16enne, si estendono adesso alla gestione del porto. Secondo quanto ricostruito dai Carabinieri della Compagnia di Molfetta, già nelle settimane precedenti al delitto, Vito Arciuli si sarebbe fronteggiato più volte con Gaetano Spera, colpevole, secondo il 19enne, di gettare le reti da pesca nella "sua" area marina. «Non devi gettare le reti in questo specchio d'acqua - avrebbe ammonito più volte Arciuli -. Qui è zona mia».
E l'omicidio del 21enne, con precedenti per droga, è nato proprio «dall'imposizione mafiosa - ha detto il colonnello Rosario Castello - degli Arciuli, un gruppo di giovanissimi emergenti». Secondo il capitano Vito Ingrosso «chiunque avesse deciso di pescare, dilettante o professionista - ha chiarito - doveva dipendere da loro nella gestione delle reti da pesca e degli ormeggi. In questo modo volevano dimostrare che loro comandavano nella zona e non c'era scampo per chiunque decidesse di opporsi a questo tipo di predominio».
Un regolamento di conti nato, stante alle accuse, dal controllo delle attività di pesca, ma anche dall'imposizione del pizzo ai pescatori e di coloro i quali approdavano nel porto. Nelle settimane successive all'omicidio, però, il clima intimidatorio non è affatto cambiato: gli inquirenti, infatti, hanno annotato numerosi episodi di minacce ai pescatori, vari furti di attrezzature da pesca e tre roghi notturni di imbarcazioni da diporto, uno dei quali, una piccola barca a remi, di proprietà della famiglia Arciuli.
Stessa sorte è toccata ad altre due imbarcazioni. Una di queste è un cabinato in vetroresina di un incensurato di Bitonto, di professione commerciante, e non, come invece asserito dal maggiore quotidiano regionale, di proprietà dei Maisto, una famiglia di origine salernitane da anni residente a Giovinazzo: «Alla luce di quanto è emerso dagli articoli pubblicati ieri sulla Gazzetta del Mezzogiorno - afferma Tiziano Tedeschi - in ordine agli sviluppi delle indagini conseguenti all'omicidio del 21enne Gaetano Spera è doveroso richiedere delle rettifiche».
Secondo il penalista giovinazzese, che assiste il proprietario dell'imbarcazione divorata dalle fiamme il 5 aprile scorso «il natante lungo 8 metri, e non il cabinato da 8 posti, come riferito nell'articolo, non è di proprietà della famiglia Maisto, ma di un commerciante di Bitonto, da me assistito. Inoltre l'incendio della barca del mio cliente si è verificato a seguito della propagazione del fuoco appiccato ad un altro natante, come accertato dai Vigili del Fuoco intervenuti nell'immediatezza dei fatti. Collegare maldestramente gli eventi rischia di coinvolgere persone e soggetti che non hanno nulla in comune con chi si è macchiato di gravi crimini oggetto di indagine. E ciò crea anche un giustificato allarme».
Incendi, riconducibili al dolo e rimasti senza colpevoli, collegati probabilmente alla gestione dell'area portuale. «Una concatenazione di fatti ed eventi - come scrive Luca Natile sulla Gazzetta del Mezzogiorno - che lancia un'ombra inquietante sul porto di Giovinazzo e su quello che accade ai margini e a volte all'interno del mondo della marineria professionale e non».
«Noi abbiamo analizzato l'aspetto relativo alla pesca - ha proseguito Ingrosso - ma, ovviamente, è tutto il porto che è oggetto della nostra attenzione». A quanto risulta, infatti, gli investigatori vogliono approfondire le attività di pesca, forse condizionate da un clima di intimidazione. Nel mirino degli inquirenti c'è anche la gestione dell'intera area portuale. L'Arma, adesso, vuole vederci chiaro.
Le indagini sull'omicidio del 21enne Gaetano Spera, che hanno portato all'esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per il 19enne Vito Arciuli, il 23enne Luca Lafronza, il 26enne Ignazio Chimenti e il 32enne Pio Mauro Sparno oltre al fermo di un 16enne, si estendono adesso alla gestione del porto. Secondo quanto ricostruito dai Carabinieri della Compagnia di Molfetta, già nelle settimane precedenti al delitto, Vito Arciuli si sarebbe fronteggiato più volte con Gaetano Spera, colpevole, secondo il 19enne, di gettare le reti da pesca nella "sua" area marina. «Non devi gettare le reti in questo specchio d'acqua - avrebbe ammonito più volte Arciuli -. Qui è zona mia».
E l'omicidio del 21enne, con precedenti per droga, è nato proprio «dall'imposizione mafiosa - ha detto il colonnello Rosario Castello - degli Arciuli, un gruppo di giovanissimi emergenti». Secondo il capitano Vito Ingrosso «chiunque avesse deciso di pescare, dilettante o professionista - ha chiarito - doveva dipendere da loro nella gestione delle reti da pesca e degli ormeggi. In questo modo volevano dimostrare che loro comandavano nella zona e non c'era scampo per chiunque decidesse di opporsi a questo tipo di predominio».
Un regolamento di conti nato, stante alle accuse, dal controllo delle attività di pesca, ma anche dall'imposizione del pizzo ai pescatori e di coloro i quali approdavano nel porto. Nelle settimane successive all'omicidio, però, il clima intimidatorio non è affatto cambiato: gli inquirenti, infatti, hanno annotato numerosi episodi di minacce ai pescatori, vari furti di attrezzature da pesca e tre roghi notturni di imbarcazioni da diporto, uno dei quali, una piccola barca a remi, di proprietà della famiglia Arciuli.
Stessa sorte è toccata ad altre due imbarcazioni. Una di queste è un cabinato in vetroresina di un incensurato di Bitonto, di professione commerciante, e non, come invece asserito dal maggiore quotidiano regionale, di proprietà dei Maisto, una famiglia di origine salernitane da anni residente a Giovinazzo: «Alla luce di quanto è emerso dagli articoli pubblicati ieri sulla Gazzetta del Mezzogiorno - afferma Tiziano Tedeschi - in ordine agli sviluppi delle indagini conseguenti all'omicidio del 21enne Gaetano Spera è doveroso richiedere delle rettifiche».
Secondo il penalista giovinazzese, che assiste il proprietario dell'imbarcazione divorata dalle fiamme il 5 aprile scorso «il natante lungo 8 metri, e non il cabinato da 8 posti, come riferito nell'articolo, non è di proprietà della famiglia Maisto, ma di un commerciante di Bitonto, da me assistito. Inoltre l'incendio della barca del mio cliente si è verificato a seguito della propagazione del fuoco appiccato ad un altro natante, come accertato dai Vigili del Fuoco intervenuti nell'immediatezza dei fatti. Collegare maldestramente gli eventi rischia di coinvolgere persone e soggetti che non hanno nulla in comune con chi si è macchiato di gravi crimini oggetto di indagine. E ciò crea anche un giustificato allarme».
Incendi, riconducibili al dolo e rimasti senza colpevoli, collegati probabilmente alla gestione dell'area portuale. «Una concatenazione di fatti ed eventi - come scrive Luca Natile sulla Gazzetta del Mezzogiorno - che lancia un'ombra inquietante sul porto di Giovinazzo e su quello che accade ai margini e a volte all'interno del mondo della marineria professionale e non».
«Noi abbiamo analizzato l'aspetto relativo alla pesca - ha proseguito Ingrosso - ma, ovviamente, è tutto il porto che è oggetto della nostra attenzione». A quanto risulta, infatti, gli investigatori vogliono approfondire le attività di pesca, forse condizionate da un clima di intimidazione. Nel mirino degli inquirenti c'è anche la gestione dell'intera area portuale. L'Arma, adesso, vuole vederci chiaro.