Giovinazzo ricorda Michele Fazio, a 16 anni fu vittima di mafia
All'incontro in piazza Vittorio Emanuele II i genitori Pinuccio e Lella, il sindaco Depalma e il criminologo Mortellaro
domenica 12 luglio 2020
10.05
«A Bari vecchia comandano le mafie e noi avevamo paura. Adesso è diventato un quartiere vivibile: oggi, a distanza di ben 19 anni, ci affacciamo ai nostri balconi e respiriamo il profumo di libertà. La morte di nostro figlio Michele è stato per noi l'inizio di un cammino di impegno».
Pinuccio Fazio, papà del 16enne Michele, ucciso per errore, tra le stradine del borgo antico barese, in una sparatoria tra clan rivali, i Capriati e gli Strisciuglio, il 12 luglio 2001, parla così all'incontro organizzato ieri dal Presidio Libera di Giovinazzo. «Il mio impegno è quello di salvare i giovani dalla criminalità organizzata, chi entra nelle maglie delle mafie non ha scampo», ha detto ancora Pinuccio Fazio. Non è altro che un vicolo chiuso, un tunnel buio e senza via d'uscita.
Da sua moglie Lella è giunto un appello ai giovani: «Non percorrete la strada della criminalità organizzata: state attenti perché i clan si avvicineranno a voi e con l'acquisto della droga non farete altro che arricchirli». I componenti del commando che uccise Michele furono arrestati nel 2015, a ben sette mesi dalla riapertura dell'inchiesta: «Io li ho perdonati - ha concluso -. Anche con il dolore nel cuore dobbiamo andare avanti: dobbiamo farlo per il vostro futuro migliore».
È stato poi il criminologo Domenico Mortellaro ad affrontare il passato della criminalità barese: «Sin dal 2001 qualcuno diceva che la mafia non esisteva. Invece tutta la storia è quella che abbiamo negato alla presenza di un'organizzazione criminale crudele e feroce. E lo abbiamo negato per 30 anni. Ci è voluta la morte di Michele Fazio, quella di Gaetano Marchitelli e, dopo, quella di Giuseppe Mizzi per cominciare veramente ad aprire gli occhi su che cosa è Bari».
L'esperto giovinazzese di sociologia del crimine e della devianza ha elogiato Pinuccio e Lella, «esempi di un papà e di una mamma che in condizioni difficili, in un quartiere marginalizzato, hanno insegnato ai loro figli che si va a lavorare (Michele faceva il barista, nda) e che si può camminare con la schiena dritta senza aver bisogno di piegare la testa davanti a nessuno e soprattutto senza aver bisogno di imporre la propria affermazione con l'arma da fuoco».
Secondo Mortellaro «ci stiamo sfilacciando come comunità, è invece il caso di prendere ago e filo e ricucire. Ed è il caso di farlo anche a Giovinazzo: non c'è una sentenza che dica che Giovinazzo è una città mafiosa, quindi io non posso affermare che a Giovinazzo c'è un clan mafioso. Giovinazzo, però, è a 8 minuti da Bari, una città dove operano 20 clan diversi e non si può pensare che Giovinazzo ne esca indenne e non si può pensare che questa sia un'isola felice».
Non esiste una sentenza che certifica l'esistenza di un'organizzazione criminale di stampo mafioso in città, dunque, «ma esiste una stima della Questura di Bari secondo cui la piazza di Giovinazzo pesa, in termini di sviluppo di profitto reale, 1.500.000 euro». Mortellaro invoca attenzione «perché da 10 anni i clan di Bari si sono professionalizzati nel commercio delle sostanze stupefacenti che sono il bancomat di un'organizzazione che mantiene 1.500 famiglie».
A Giovinazzo, secondo l'esperto giovinazzese che da anni si occupa dello studio di sistemi criminali organizzati, «non ci sono clan: non c'è nessuna sentenza che dica che Giovinazzo è una città con un clan mafioso. Tuttavia è il caso di essere tutti attenti, la chiave è quella di convincersi che non esiste nessun tipo di forma di consumo di droga che ci renda non complici del sistema mafioso. Non esiste la cultura di dire che lo spinello, siccome non fa male, non è mafia».
C'è ancora tanta strada da fare, il percorso è lungo: «Cominciamo a non voltare la testa - dice ancora Mortellaro - cominciamo a non comprare più droga, anche lo spinello. Da un rischio del genere si esce solo se si sta tutti insieme, senza lasciare nulla di non detto». Anche secondo Tommaso Depalma «la vera tragedia, in una città viva e senza clan mafiosi, è chi consuma. Non bisogna mai stancarsi di parlarne, noi dobbiamo incidere, guardando in faccia chi ci sta attorno».
Alle parole di Mortellaro è affidato il ricordo di Michele Fazio: «Michele era un ragazzo di 15 anni che, in un quartiere in cui la cosa più normale è guadagnarsi 500 euro al giorno facendo la vedetta su un bazar della droga, lavorava in un bar. Era un giovane che lavorava con dignità e che stava con la testa alta».
Pinuccio Fazio, papà del 16enne Michele, ucciso per errore, tra le stradine del borgo antico barese, in una sparatoria tra clan rivali, i Capriati e gli Strisciuglio, il 12 luglio 2001, parla così all'incontro organizzato ieri dal Presidio Libera di Giovinazzo. «Il mio impegno è quello di salvare i giovani dalla criminalità organizzata, chi entra nelle maglie delle mafie non ha scampo», ha detto ancora Pinuccio Fazio. Non è altro che un vicolo chiuso, un tunnel buio e senza via d'uscita.
Da sua moglie Lella è giunto un appello ai giovani: «Non percorrete la strada della criminalità organizzata: state attenti perché i clan si avvicineranno a voi e con l'acquisto della droga non farete altro che arricchirli». I componenti del commando che uccise Michele furono arrestati nel 2015, a ben sette mesi dalla riapertura dell'inchiesta: «Io li ho perdonati - ha concluso -. Anche con il dolore nel cuore dobbiamo andare avanti: dobbiamo farlo per il vostro futuro migliore».
È stato poi il criminologo Domenico Mortellaro ad affrontare il passato della criminalità barese: «Sin dal 2001 qualcuno diceva che la mafia non esisteva. Invece tutta la storia è quella che abbiamo negato alla presenza di un'organizzazione criminale crudele e feroce. E lo abbiamo negato per 30 anni. Ci è voluta la morte di Michele Fazio, quella di Gaetano Marchitelli e, dopo, quella di Giuseppe Mizzi per cominciare veramente ad aprire gli occhi su che cosa è Bari».
L'esperto giovinazzese di sociologia del crimine e della devianza ha elogiato Pinuccio e Lella, «esempi di un papà e di una mamma che in condizioni difficili, in un quartiere marginalizzato, hanno insegnato ai loro figli che si va a lavorare (Michele faceva il barista, nda) e che si può camminare con la schiena dritta senza aver bisogno di piegare la testa davanti a nessuno e soprattutto senza aver bisogno di imporre la propria affermazione con l'arma da fuoco».
Secondo Mortellaro «ci stiamo sfilacciando come comunità, è invece il caso di prendere ago e filo e ricucire. Ed è il caso di farlo anche a Giovinazzo: non c'è una sentenza che dica che Giovinazzo è una città mafiosa, quindi io non posso affermare che a Giovinazzo c'è un clan mafioso. Giovinazzo, però, è a 8 minuti da Bari, una città dove operano 20 clan diversi e non si può pensare che Giovinazzo ne esca indenne e non si può pensare che questa sia un'isola felice».
Non esiste una sentenza che certifica l'esistenza di un'organizzazione criminale di stampo mafioso in città, dunque, «ma esiste una stima della Questura di Bari secondo cui la piazza di Giovinazzo pesa, in termini di sviluppo di profitto reale, 1.500.000 euro». Mortellaro invoca attenzione «perché da 10 anni i clan di Bari si sono professionalizzati nel commercio delle sostanze stupefacenti che sono il bancomat di un'organizzazione che mantiene 1.500 famiglie».
A Giovinazzo, secondo l'esperto giovinazzese che da anni si occupa dello studio di sistemi criminali organizzati, «non ci sono clan: non c'è nessuna sentenza che dica che Giovinazzo è una città con un clan mafioso. Tuttavia è il caso di essere tutti attenti, la chiave è quella di convincersi che non esiste nessun tipo di forma di consumo di droga che ci renda non complici del sistema mafioso. Non esiste la cultura di dire che lo spinello, siccome non fa male, non è mafia».
C'è ancora tanta strada da fare, il percorso è lungo: «Cominciamo a non voltare la testa - dice ancora Mortellaro - cominciamo a non comprare più droga, anche lo spinello. Da un rischio del genere si esce solo se si sta tutti insieme, senza lasciare nulla di non detto». Anche secondo Tommaso Depalma «la vera tragedia, in una città viva e senza clan mafiosi, è chi consuma. Non bisogna mai stancarsi di parlarne, noi dobbiamo incidere, guardando in faccia chi ci sta attorno».
Alle parole di Mortellaro è affidato il ricordo di Michele Fazio: «Michele era un ragazzo di 15 anni che, in un quartiere in cui la cosa più normale è guadagnarsi 500 euro al giorno facendo la vedetta su un bazar della droga, lavorava in un bar. Era un giovane che lavorava con dignità e che stava con la testa alta».