«Fiume è casa mia»
Giovinazzo ha celebrato ieri sera il "Giorno del Ricordo" con la testimonianza di Amelia Resaz
mercoledì 14 febbraio 2018
06.00
La polvere sui libri di storia la si può togliere solo ascoltando le testimonianze di chi ha vissuto terribili atrocità. Testimonianze, come quella di Amelia Resaz, esule fiumana, che sono in grado di svelare il silenzio ipocrita di alcune forze politiche ed avviare una riflessione seria sui fatti che interessarono l'Istria, la Dalmazia ed il Carso subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ieri sera Giovinazzo ha celebrato il "Giorno del Ricordo" delle vittime delle foibe e del conseguente esodo dei sopravvissuti. In Sala San Felice è stato dapprima proiettato il cortometraggio "L'altra storia" di Nicola Vero, delicato nei toni e nelle immagini, che racconta di Giuseppe detto "Bombolone", corpulento bambino pugliese che non riesce a trovare la verità sulle foibe, raccontata solo da un nonno che in quella tragedia perse la sua prima fidanzata. La scena finale, girata sulla terrazza della Vedetta sul Mediterraneo, a Giovinazzo, sa strappare qualche lacrima, con nonno e nipote abbracciati, avvolti in una coperta, a guardare verso nord-est quel mare che ha raccolto le storie di tanti uomini e donne scappati da quei luoghi.
A seguire c'è stato l'illuminato intervento del professor Nicola Fiorino Tucci, il quale ha tracciato un quadro storico dettagliato, ma alla portata di tutti i presenti, in cui maturarono i fatti che si ricordano il 10 febbraio. Tucci ha giustamente posto l'accento su come i comunisti titini fossero intenzionati ad annientare l'etnia italiana, per presentarsi poi al tavolo di Parigi del 1947 con la certezza di potersi impossessare di quei territori. Eliminare scientificamente la presenza italiana significava quindi, ha ricordato il professore, affermare che quelle zone erano abitate in maggioranza da slavi, completando il progetto del Maresciallo Tito. Un progetto di un uomo per troppo tempo ingiustamente incensato dalla storiografia del nostro Paese per la sua funzione di limitazione dell'espansione sovietica verso ovest, protagonista e mandante di quelle atrocità e di molte altre.
«Si è trattato di una congiura del silenzio - ha sottolineato Tucci - per tutelare equilibri internazionali, nonostante il quotidiano popolare ed una relazione del 1946 dello stesso Comitato di Liberazione Nazionale avesse già messo in luce le violenze e le deportazioni. Anche gli Alleati, tra l'aprile ed il maggio dello stesso anno - ha poi chiarito - raccontavano in una relazione dettagliata la vicenda di triestini e goriziani che non fecero più ritorno a casa».
Stava accadendo quello che molti libri di storia hanno negato per decenni: i comunisti agli ordini di Tito stavano operando quella pulizia etnica studiata nei minimi dettagli e che portò a morire in quegli inghiottitoi carsici un numero imprecisato di persone, non inferiore alle 10.000 unità secondo i dati più recenti (ma circa 37 foibe non sono state ispezionate e nella sola foiba di Basovizza sono stati trovati circa 500 metri cubi di ossa, che nascondono verosimilmente centinaia di cadaveri). Altri 350.000 divennero esuli, profughi in quella patria, l'Italia, che non li riconobbe come fratelli da accogliere e che a lungo non ne capì il dramma immane.
A svelarlo il racconto di Amelia Resaz, classe 1926, tra gli ultimi testimoni oculari di quella pulizia etnica di matrice comunista. Lei ha raccontato la gioia di molti per l'armistizio dell'8 settembre 1943, che avrebbe dovuto rappresentare la fine del fascismo e l'inizio di una nuova vita per popolazioni che storicamente, dall'impero austro-ungarico in poi, avevano imparato a convivere. Fiume era una città libera, ha raccontato la Resaz, «cento anni avanti al resto d'Italia», proprio per la capacità di riunire popolazioni di origini diverse.
Ed invece i nazisti che si ritirarono, gli Alleati che bombardarono quei luoghi e l'arrivo dei titini, le annichilirono quelle popolazioni, che dovettero scappare per sottrarsi alla morte o all'annientamento sociale.
«Sentirsi rifugiati non è stato facile - ha confessato, incalzata dal moderatore Michele Cotugno De Palma -. Non è stato facile per tanti non avere una tomba su cui piangere, il non essere compresi. Come a Bologna - ha raccontato - quando i sindacati minacciarono di scioperare e bloccare la stazione se si fosse fermato il treno coi "fascisti". Non eravamo fascisti - ha detto col magone -, tanti di noi non lo erano affatto, ma eravamo profughi».
Amelia Resaz, testa alta, voglia di raccontarla quella tragedia anche alle soglie dei 92 anni, ha sottolineato come quelle persone che scappavano erano per i comunisti slavi un problema, spesso impiegati dell'apparato statale, insegnanti, sacerdoti da estirpare dalla loro terra per farne un pezzo di Jugoslavia. Lei giunse a Bari perché qui c'era un suo fratello, che non vedeva da nove anni per via della guerra e vi giunse grazie ad un prestito di 10.000 lire di un funzionario che lo conosceva.
«De Felice diceva - ha ricordato Amelia Resaz, che in vita sua è stata bancaria, giornalista, autrice di bellissimi libri - che l'8 settembre ha distrutto il concetto di patria soprattutto per quelle popolazioni. Io concordo, perché ha rappresentato la distruzione del nostro modo di vivere. Ed anche chi non voleva restare sotto l'Italia, fu perseguitato come tutti i capi del movimento che era per l'indipendenza fiumana».
Amelia Resaz, stimolata da una nostra domanda, ha ricordato anche un concetto importantissimo: «la pace passa attraverso la gente». Non sono i Trattati a costruirla, ma il comune sentire. Non prova odio per chi, come accaduto proprio a Bari, ancora oggi sente il bisogno di uscire dall'Aula consiliare quando si tiene il minuto di silenzio per ricordare quelle vittime. «Sono ignoranti perché hanno studiato su libri di storia che di quella storia non dicevano nulla. Direi loro di studiare - ha aggiunto -, ma so che non potrebbero farlo su quegli stessi libri. Per loro non provo odio, affatto, ma provo tanto dolore», ha concluso.
Ed al Sindaco Tommaso Depalma, il quale in apertura aveva fatto cenno alla necessità di abbattere definitivamente i muri ideologici che hanno viziato l'analisi storica su quei fatti e su altre tragedie, Amelia Resaz ha detto la sua grande verità, nonostante abbia vissuto sessanta anni a Bari: «Fiume è casa mia. A chi mi chiede scusa - ha chiosato -, io dico solo che non si chiede scusa per procura. Bisognerebbe chiedere scusa a quei morti. Ma sono morti e non potranno più ascoltarle quelle scuse».
La cronaca di questi giorni ci ha detto che il negazionismo di alcune frange politiche e di taluni ambienti pseudo-intellettuali trova ancora terreni fertili su cui attecchire. Serate come quella di ieri, invece, restano l'unico baluardo contro l'ignoranza indotta ed il silenzio complice.
Ieri sera Giovinazzo ha celebrato il "Giorno del Ricordo" delle vittime delle foibe e del conseguente esodo dei sopravvissuti. In Sala San Felice è stato dapprima proiettato il cortometraggio "L'altra storia" di Nicola Vero, delicato nei toni e nelle immagini, che racconta di Giuseppe detto "Bombolone", corpulento bambino pugliese che non riesce a trovare la verità sulle foibe, raccontata solo da un nonno che in quella tragedia perse la sua prima fidanzata. La scena finale, girata sulla terrazza della Vedetta sul Mediterraneo, a Giovinazzo, sa strappare qualche lacrima, con nonno e nipote abbracciati, avvolti in una coperta, a guardare verso nord-est quel mare che ha raccolto le storie di tanti uomini e donne scappati da quei luoghi.
A seguire c'è stato l'illuminato intervento del professor Nicola Fiorino Tucci, il quale ha tracciato un quadro storico dettagliato, ma alla portata di tutti i presenti, in cui maturarono i fatti che si ricordano il 10 febbraio. Tucci ha giustamente posto l'accento su come i comunisti titini fossero intenzionati ad annientare l'etnia italiana, per presentarsi poi al tavolo di Parigi del 1947 con la certezza di potersi impossessare di quei territori. Eliminare scientificamente la presenza italiana significava quindi, ha ricordato il professore, affermare che quelle zone erano abitate in maggioranza da slavi, completando il progetto del Maresciallo Tito. Un progetto di un uomo per troppo tempo ingiustamente incensato dalla storiografia del nostro Paese per la sua funzione di limitazione dell'espansione sovietica verso ovest, protagonista e mandante di quelle atrocità e di molte altre.
«Si è trattato di una congiura del silenzio - ha sottolineato Tucci - per tutelare equilibri internazionali, nonostante il quotidiano popolare ed una relazione del 1946 dello stesso Comitato di Liberazione Nazionale avesse già messo in luce le violenze e le deportazioni. Anche gli Alleati, tra l'aprile ed il maggio dello stesso anno - ha poi chiarito - raccontavano in una relazione dettagliata la vicenda di triestini e goriziani che non fecero più ritorno a casa».
Stava accadendo quello che molti libri di storia hanno negato per decenni: i comunisti agli ordini di Tito stavano operando quella pulizia etnica studiata nei minimi dettagli e che portò a morire in quegli inghiottitoi carsici un numero imprecisato di persone, non inferiore alle 10.000 unità secondo i dati più recenti (ma circa 37 foibe non sono state ispezionate e nella sola foiba di Basovizza sono stati trovati circa 500 metri cubi di ossa, che nascondono verosimilmente centinaia di cadaveri). Altri 350.000 divennero esuli, profughi in quella patria, l'Italia, che non li riconobbe come fratelli da accogliere e che a lungo non ne capì il dramma immane.
A svelarlo il racconto di Amelia Resaz, classe 1926, tra gli ultimi testimoni oculari di quella pulizia etnica di matrice comunista. Lei ha raccontato la gioia di molti per l'armistizio dell'8 settembre 1943, che avrebbe dovuto rappresentare la fine del fascismo e l'inizio di una nuova vita per popolazioni che storicamente, dall'impero austro-ungarico in poi, avevano imparato a convivere. Fiume era una città libera, ha raccontato la Resaz, «cento anni avanti al resto d'Italia», proprio per la capacità di riunire popolazioni di origini diverse.
Ed invece i nazisti che si ritirarono, gli Alleati che bombardarono quei luoghi e l'arrivo dei titini, le annichilirono quelle popolazioni, che dovettero scappare per sottrarsi alla morte o all'annientamento sociale.
«Sentirsi rifugiati non è stato facile - ha confessato, incalzata dal moderatore Michele Cotugno De Palma -. Non è stato facile per tanti non avere una tomba su cui piangere, il non essere compresi. Come a Bologna - ha raccontato - quando i sindacati minacciarono di scioperare e bloccare la stazione se si fosse fermato il treno coi "fascisti". Non eravamo fascisti - ha detto col magone -, tanti di noi non lo erano affatto, ma eravamo profughi».
Amelia Resaz, testa alta, voglia di raccontarla quella tragedia anche alle soglie dei 92 anni, ha sottolineato come quelle persone che scappavano erano per i comunisti slavi un problema, spesso impiegati dell'apparato statale, insegnanti, sacerdoti da estirpare dalla loro terra per farne un pezzo di Jugoslavia. Lei giunse a Bari perché qui c'era un suo fratello, che non vedeva da nove anni per via della guerra e vi giunse grazie ad un prestito di 10.000 lire di un funzionario che lo conosceva.
«De Felice diceva - ha ricordato Amelia Resaz, che in vita sua è stata bancaria, giornalista, autrice di bellissimi libri - che l'8 settembre ha distrutto il concetto di patria soprattutto per quelle popolazioni. Io concordo, perché ha rappresentato la distruzione del nostro modo di vivere. Ed anche chi non voleva restare sotto l'Italia, fu perseguitato come tutti i capi del movimento che era per l'indipendenza fiumana».
Amelia Resaz, stimolata da una nostra domanda, ha ricordato anche un concetto importantissimo: «la pace passa attraverso la gente». Non sono i Trattati a costruirla, ma il comune sentire. Non prova odio per chi, come accaduto proprio a Bari, ancora oggi sente il bisogno di uscire dall'Aula consiliare quando si tiene il minuto di silenzio per ricordare quelle vittime. «Sono ignoranti perché hanno studiato su libri di storia che di quella storia non dicevano nulla. Direi loro di studiare - ha aggiunto -, ma so che non potrebbero farlo su quegli stessi libri. Per loro non provo odio, affatto, ma provo tanto dolore», ha concluso.
Ed al Sindaco Tommaso Depalma, il quale in apertura aveva fatto cenno alla necessità di abbattere definitivamente i muri ideologici che hanno viziato l'analisi storica su quei fatti e su altre tragedie, Amelia Resaz ha detto la sua grande verità, nonostante abbia vissuto sessanta anni a Bari: «Fiume è casa mia. A chi mi chiede scusa - ha chiosato -, io dico solo che non si chiede scusa per procura. Bisognerebbe chiedere scusa a quei morti. Ma sono morti e non potranno più ascoltarle quelle scuse».
La cronaca di questi giorni ci ha detto che il negazionismo di alcune frange politiche e di taluni ambienti pseudo-intellettuali trova ancora terreni fertili su cui attecchire. Serate come quella di ieri, invece, restano l'unico baluardo contro l'ignoranza indotta ed il silenzio complice.
PER SAPERNE DI PIÚ
LIBRI:
"I martiri della Chiesa - Il martirologio giuliano" di Giuseppe Dicuonzo Sansa - Edizioni Nuova Prhomos
"Còntime - Un storia vera" di Amelia Resaz - Secop Edizioni
"Foibe - La stragi negate degli italiani della Venezia-Giulia e dell'Istria" di Gianni Oliva - Mondadori
CORTOMETRAGGI
"L'altra storia" di Nicola Vero
SPETTACOLI TEATRALI
"Magazzino 18" con Simone Cristicchi - Scritto da Simone Cristicchi e Jan Bernas - Regia di Antonio Calenda
LIBRI:
"I martiri della Chiesa - Il martirologio giuliano" di Giuseppe Dicuonzo Sansa - Edizioni Nuova Prhomos
"Còntime - Un storia vera" di Amelia Resaz - Secop Edizioni
"Foibe - La stragi negate degli italiani della Venezia-Giulia e dell'Istria" di Gianni Oliva - Mondadori
CORTOMETRAGGI
"L'altra storia" di Nicola Vero
SPETTACOLI TEATRALI
"Magazzino 18" con Simone Cristicchi - Scritto da Simone Cristicchi e Jan Bernas - Regia di Antonio Calenda