Fiorentino fu ucciso perché «costituiva un avversario scomodo a Giovinazzo»
Non solo Giangaspero, altri dieci collaboratori hanno chiarito l'omicidio. Un indagato «ha reso false dichiarazioni». Domani gli interrogatori
giovedì 16 novembre 2023
17.49
Un uomo ammazzato «per il possesso della piazza, perché a Giovinazzo Claudio Fiorentino si stava ingrandendo e stava allargando il suo territorio, entrando nel nostro», ha detto Michele Giangaspero, il 43enne che s'è autoaccusato del delitto avvenuto il 3 giugno 2014. E poi 9 anni di silenzio. Un mistero rimasto irrisolto.
Fino a martedì, quando col collaboratore sono finiti agli arresti Luigi Guglielmi e Piero Mesecorto, di 41 e 35 anni. Con loro il 44enne Mario Del Vecchio e i fratelli Carmine e Pasquale Maisto, di 49 e 44 anni. Esponenti del clan Di Cosola, e protetti da un clima impenetrabile di omertà, sono accusati a vario titolo, di omicidio in concorso, detenzione e di porto illegale di armi, aggravati dalle modalità mafiose per le dichiarazioni di ben undici persone, divenute collaboratori di giustizia.
Tra questi, Giangaspero, che negli incontri con i magistrati antimafia Federico Perrone Capano e Domenico Minardi ha raccontato, tra le altre cose, di quel delitto che forse gli stessi inquirenti avevano archiviato come "cold case". Un agguato deciso nel corso di due riunioni: la prima avvenuta nell'abitazione di Guglielmi, «a Ceglie, alla villa in campagna», ha detto Giangaspero, mentre l'altra in quella di Teodoro Frappampina, a Carbonara, «dove vennero decise le modalità operative».
Paolo Masciopinto, un altro pentito, ha detto che quel delitto c'entrava con «gli affari» perché Fiorentino, imparentato col clan Capriati, «costituiva un avversario scomodo sulla piazza di Giovinazzo che andava eliminato», secondo le carte dell'inchiesta. «L'hanno puntato a Fiorentino. Pierino è andato dritto a lui a chiedere estorsioni, altri affiliati, non so quanto hanno chiesto di estorsioni, il 50% o il 40%, e lui ha risposto a loro: "Io non do niente a nessuno"», ha rivelato Masciopinto.
Rincarando la dose anche davanti a Mesecorto: «"Niente né a te, né a Guglielmi e né a 'Strascina', niente a nessuno"», avrebbe detto Fiorentino. Di qui la necessità di eliminarlo - a sparare con una pistola mitragliatrice Micro Uzi, ritrovata a pezzi nella discarica di Giovinazzo, fu Mesecorto, a guidare la moto, una Suzuki 1000, Giangaspero - «per conquistare il territorio Giovinazzo, che veniva consegnato a Pasquale Maisto, affiliato di Guglielmi, e quindi per rafforzare il clan Di Cosola».
Gli accertamenti svolti dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari hanno offerto, per l'accusa, una serie di riscontri alle parole dei collaboratori di giustizia. In modo particolare è stata una fonte vicina alla vittima a rivelare che, circa venti giorni prima dell'omicidio, Fiorentino le avrebbe confidato di essere ormai «stanco degli atteggiamenti avuti nei suoi confronti da parte dei fratelli Maisto» perché «vanno a ricorrere alle persone di Bari per farmi mettere a parcheggio», ha detto.
Uno dei sei indagati, Carmine Maisto, che nel 2019 manifestò la volontà di intraprendere la via del pentitismo (il programma di protezione gli fu successivamente revocato), «ha reso dichiarazioni false», tentando di dimostrare la propria estraneità all'omicidio e presentando come prova uno scontrino. Che, secondo l'uomo, attestava la sua presenza in un bar della città di Molfetta, «in un luogo distante dalla scena del crimine ed in un orario prossimo alla consumazione del delitto».
L'indagine «ha permesso di impedire che uno dei sei indagati - ha detto il colonnello Francesco de Marchis -, ritenuto il capo del clan (Guglielmi), potesse essere scarcerato (il fine pena era il 20 gennaio 2024) e quindi ciò potesse costituire una riaffermazione dell'egemonia criminale». Domani inizieranno gli interrogatori.
Fino a martedì, quando col collaboratore sono finiti agli arresti Luigi Guglielmi e Piero Mesecorto, di 41 e 35 anni. Con loro il 44enne Mario Del Vecchio e i fratelli Carmine e Pasquale Maisto, di 49 e 44 anni. Esponenti del clan Di Cosola, e protetti da un clima impenetrabile di omertà, sono accusati a vario titolo, di omicidio in concorso, detenzione e di porto illegale di armi, aggravati dalle modalità mafiose per le dichiarazioni di ben undici persone, divenute collaboratori di giustizia.
Tra questi, Giangaspero, che negli incontri con i magistrati antimafia Federico Perrone Capano e Domenico Minardi ha raccontato, tra le altre cose, di quel delitto che forse gli stessi inquirenti avevano archiviato come "cold case". Un agguato deciso nel corso di due riunioni: la prima avvenuta nell'abitazione di Guglielmi, «a Ceglie, alla villa in campagna», ha detto Giangaspero, mentre l'altra in quella di Teodoro Frappampina, a Carbonara, «dove vennero decise le modalità operative».
Paolo Masciopinto, un altro pentito, ha detto che quel delitto c'entrava con «gli affari» perché Fiorentino, imparentato col clan Capriati, «costituiva un avversario scomodo sulla piazza di Giovinazzo che andava eliminato», secondo le carte dell'inchiesta. «L'hanno puntato a Fiorentino. Pierino è andato dritto a lui a chiedere estorsioni, altri affiliati, non so quanto hanno chiesto di estorsioni, il 50% o il 40%, e lui ha risposto a loro: "Io non do niente a nessuno"», ha rivelato Masciopinto.
Rincarando la dose anche davanti a Mesecorto: «"Niente né a te, né a Guglielmi e né a 'Strascina', niente a nessuno"», avrebbe detto Fiorentino. Di qui la necessità di eliminarlo - a sparare con una pistola mitragliatrice Micro Uzi, ritrovata a pezzi nella discarica di Giovinazzo, fu Mesecorto, a guidare la moto, una Suzuki 1000, Giangaspero - «per conquistare il territorio Giovinazzo, che veniva consegnato a Pasquale Maisto, affiliato di Guglielmi, e quindi per rafforzare il clan Di Cosola».
Gli accertamenti svolti dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Bari hanno offerto, per l'accusa, una serie di riscontri alle parole dei collaboratori di giustizia. In modo particolare è stata una fonte vicina alla vittima a rivelare che, circa venti giorni prima dell'omicidio, Fiorentino le avrebbe confidato di essere ormai «stanco degli atteggiamenti avuti nei suoi confronti da parte dei fratelli Maisto» perché «vanno a ricorrere alle persone di Bari per farmi mettere a parcheggio», ha detto.
Uno dei sei indagati, Carmine Maisto, che nel 2019 manifestò la volontà di intraprendere la via del pentitismo (il programma di protezione gli fu successivamente revocato), «ha reso dichiarazioni false», tentando di dimostrare la propria estraneità all'omicidio e presentando come prova uno scontrino. Che, secondo l'uomo, attestava la sua presenza in un bar della città di Molfetta, «in un luogo distante dalla scena del crimine ed in un orario prossimo alla consumazione del delitto».
L'indagine «ha permesso di impedire che uno dei sei indagati - ha detto il colonnello Francesco de Marchis -, ritenuto il capo del clan (Guglielmi), potesse essere scarcerato (il fine pena era il 20 gennaio 2024) e quindi ciò potesse costituire una riaffermazione dell'egemonia criminale». Domani inizieranno gli interrogatori.