Arresti nell'Arma: dai roghi ai verbali dei pentiti, le perplessità di Amato
L'ex comandante della locale Stazione, però, preferisce «non commentare» le ultime vicende
venerdì 3 luglio 2020
07.00
Non c'era un movente chiaro dietro i roghi avvenuti fra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, nemmeno dopo la denuncia in stato di libertà di P.D.A.: nel giardino condominiale dove vive, il 6 febbraio 2018, i Carabinieri ritrovarono, oltre ad armi, proiettili, cartucce e droga, anche il kit del perfetto piromane.
Le circostanze del deferimento a piede libero del 23enne, «fino a quel momento non gravato da alcun precedente», non hanno mai persuaso il luogotenente Dino Amato: la logica dei fatti, l'individuazione del nascondiglio, celato fra la vegetazione di un giardino condominiale sito in località Casino della Principessa, nell'agro di Giovinazzo, e il ritrovamento, all'interno di un sacco, di tre bottiglie di plastica colme quasi sino all'orlo di benzina, non l'hanno mai convinto.
A confermarlo, nel corso di un interrogatorio sull'evento, è il collaboratore di giustizia Michele Giangaspero, che in quel periodo (dicembre 2017-gennaio 2018), si trovava ai domiciliari: «So che il maresciallo Amato manifestò, successivamente, perplessità circa la responsabilità del soggetto denunciato», diventato il capro espiatorio dei tre roghi avvenuti in via Cavour (12 dicembre 2017), in via Redipuglia (13 gennaio 2018) e in via Di Vittorio (14 gennaio 2018).
«Un giorno - ha detto Giangaspero - arriva Laforgia e dice: "Michele, la vogliamo finire con questi incendi?". Dissi: "Appuntato, mo' facciamo una cosa. Mo' ti prendo un po' di roba, te la butto a casa di qualcuno e te lo faccio arrestare"». E così è accaduto. «Arrivarono là, fecero la perquisizione, andarono nella siepe dove noi gli dicemmo e così si sono chiusi gli incendi». Incolpando, però, un innocente. Anche se non si comprende perché i roghi siano realmente cessati.
Tanti i dubbi e le perplessità di Dino Amato, comandante della Stazione di Giovinazzo dal 2012 al 2020, ascoltato dagli inquirenti che conducono le indagini su Domenico Laforgia e Antonio Salerno, arrestati il 17 giugno: i fatti contestati risalgono al periodo compreso tra il 2012 e il 2018. L'ex numero uno della locale Stazione dei Carabinieri, però, uomo taciturno, riservato e schivo, preferisce «non commentare» con gli organi di stampa le ultime vicende.
Dubbi e perplessità tornati a invadere la testa del luogotenente di Palermo alcuni mesi dopo: è infatti il 16 ottobre 2018 quando «l'indirizzo di posta elettronica della Stazione Carabinieri di Giovinazzo è stato destinatario di uno o più file contenenti un voluminoso fascicolo con diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia». L'invio è avvenuto da un indirizzo di posta elettronica del Tribunale Penale di Bari, dove, secondo quanto scoperto, ci sarebbe una "talpa".
Amato «considerato che non riusciva a comprendere il motivo di tale invio, sempre a mezzo di posta elettronica, chiedeva all'indirizzo di provenienza, spiegazioni circa detto invio con preghiera di fornire delucidazioni su quanto quel Comando Stazione doveva fare. A tutt'oggi la Stazione non ha ricevuto alcuna risposta». E sì perché probabilmente l'invio di «un voluminoso fascicolo con allegati diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia» non era legale.
A spiegarlo, nell'ordinanza di custodia cautelare, è proprio il giudice per le indagini preliminari Marco Galesi: «Le Stazioni Carabinieri - spiega - non sono comandi che normalmente svolgono attività investigative sulla criminalità organizzata e quindi - rimarca il gip - non sono deputate a detenere atti relativi ad interrogatori di collaboratori di giustizia; la deroga a tale normale condizione la si ottiene solo attraverso una eventuale deroga dell'Autorità Giudiziaria».
L'anomala ricezione dell'email è stata oggetto di comunicazione del Nucleo Operativo della Compagnia di Molfetta - venuto a conoscenza dell'episodio anche da parte di Amato - al pubblico ministero il 21 febbraio 2019, in quanto Michele Giangaspero, in un interrogatorio «ha detto di aver ricevuto, nel periodo antecedente alla sua decisione di collaborare, da un appartenente alle forze dell'ordine, una pen drive contenente le dichiarazioni di collaboratori di giustizia».
Da Domenico Laforgia, il collaboratore di giustizia ha affermato di aver ricevuto, per la prima volta, una pen drive, verso la fine del 2017, mentre era sottoposto ai domiciliari ed un'altra «una penna della caserma, che usate per servizio e quant'altro» a maggio 2018: «Era collegabile ad un fascicolo, collegabile ad un fascicolo di... del blitz era, sempre del blitz, che a me non mi interessava neanche niente saperle, era un blitz», le dichiarazioni del giovinazzese Giangaspero.
Da Antonio Salerno, invece, il collaboratore di giustizia ha detto di aver ricevuto una pen drive con il verbale di interrogatorio di Giuseppe Pappagallo (arrestato nell'operazione "Halloween" il 31 ottobre 2017, prima di formalizzare, nell'estate del 2018, la sua intenzione di collaborare con la giustizia, nda) e poi sempre lo stesso atto in formato cartaceo. Su Salerno, Giangaspero afferma: «Con le sua capacità di appuntato, può fare anche un lavoro di un maresciallo».
«Lui (Salerno, ndr) - ha detto ancora - può entrare nei terminali di un maresciallo, come potrebbe detrarre il fascicolo. Me lo disse lui: "Questo fascicolo te lo sto portando perché io l'ho scaricato». Tutto ciò per agevolare i Di Cosola. In cambio, dal 2012, avrebbero ottenuto denaro e benefit per circa 400mila euro.
Le circostanze del deferimento a piede libero del 23enne, «fino a quel momento non gravato da alcun precedente», non hanno mai persuaso il luogotenente Dino Amato: la logica dei fatti, l'individuazione del nascondiglio, celato fra la vegetazione di un giardino condominiale sito in località Casino della Principessa, nell'agro di Giovinazzo, e il ritrovamento, all'interno di un sacco, di tre bottiglie di plastica colme quasi sino all'orlo di benzina, non l'hanno mai convinto.
A confermarlo, nel corso di un interrogatorio sull'evento, è il collaboratore di giustizia Michele Giangaspero, che in quel periodo (dicembre 2017-gennaio 2018), si trovava ai domiciliari: «So che il maresciallo Amato manifestò, successivamente, perplessità circa la responsabilità del soggetto denunciato», diventato il capro espiatorio dei tre roghi avvenuti in via Cavour (12 dicembre 2017), in via Redipuglia (13 gennaio 2018) e in via Di Vittorio (14 gennaio 2018).
«Un giorno - ha detto Giangaspero - arriva Laforgia e dice: "Michele, la vogliamo finire con questi incendi?". Dissi: "Appuntato, mo' facciamo una cosa. Mo' ti prendo un po' di roba, te la butto a casa di qualcuno e te lo faccio arrestare"». E così è accaduto. «Arrivarono là, fecero la perquisizione, andarono nella siepe dove noi gli dicemmo e così si sono chiusi gli incendi». Incolpando, però, un innocente. Anche se non si comprende perché i roghi siano realmente cessati.
Tanti i dubbi e le perplessità di Dino Amato, comandante della Stazione di Giovinazzo dal 2012 al 2020, ascoltato dagli inquirenti che conducono le indagini su Domenico Laforgia e Antonio Salerno, arrestati il 17 giugno: i fatti contestati risalgono al periodo compreso tra il 2012 e il 2018. L'ex numero uno della locale Stazione dei Carabinieri, però, uomo taciturno, riservato e schivo, preferisce «non commentare» con gli organi di stampa le ultime vicende.
Dubbi e perplessità tornati a invadere la testa del luogotenente di Palermo alcuni mesi dopo: è infatti il 16 ottobre 2018 quando «l'indirizzo di posta elettronica della Stazione Carabinieri di Giovinazzo è stato destinatario di uno o più file contenenti un voluminoso fascicolo con diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia». L'invio è avvenuto da un indirizzo di posta elettronica del Tribunale Penale di Bari, dove, secondo quanto scoperto, ci sarebbe una "talpa".
Amato «considerato che non riusciva a comprendere il motivo di tale invio, sempre a mezzo di posta elettronica, chiedeva all'indirizzo di provenienza, spiegazioni circa detto invio con preghiera di fornire delucidazioni su quanto quel Comando Stazione doveva fare. A tutt'oggi la Stazione non ha ricevuto alcuna risposta». E sì perché probabilmente l'invio di «un voluminoso fascicolo con allegati diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia» non era legale.
A spiegarlo, nell'ordinanza di custodia cautelare, è proprio il giudice per le indagini preliminari Marco Galesi: «Le Stazioni Carabinieri - spiega - non sono comandi che normalmente svolgono attività investigative sulla criminalità organizzata e quindi - rimarca il gip - non sono deputate a detenere atti relativi ad interrogatori di collaboratori di giustizia; la deroga a tale normale condizione la si ottiene solo attraverso una eventuale deroga dell'Autorità Giudiziaria».
L'anomala ricezione dell'email è stata oggetto di comunicazione del Nucleo Operativo della Compagnia di Molfetta - venuto a conoscenza dell'episodio anche da parte di Amato - al pubblico ministero il 21 febbraio 2019, in quanto Michele Giangaspero, in un interrogatorio «ha detto di aver ricevuto, nel periodo antecedente alla sua decisione di collaborare, da un appartenente alle forze dell'ordine, una pen drive contenente le dichiarazioni di collaboratori di giustizia».
Da Domenico Laforgia, il collaboratore di giustizia ha affermato di aver ricevuto, per la prima volta, una pen drive, verso la fine del 2017, mentre era sottoposto ai domiciliari ed un'altra «una penna della caserma, che usate per servizio e quant'altro» a maggio 2018: «Era collegabile ad un fascicolo, collegabile ad un fascicolo di... del blitz era, sempre del blitz, che a me non mi interessava neanche niente saperle, era un blitz», le dichiarazioni del giovinazzese Giangaspero.
Da Antonio Salerno, invece, il collaboratore di giustizia ha detto di aver ricevuto una pen drive con il verbale di interrogatorio di Giuseppe Pappagallo (arrestato nell'operazione "Halloween" il 31 ottobre 2017, prima di formalizzare, nell'estate del 2018, la sua intenzione di collaborare con la giustizia, nda) e poi sempre lo stesso atto in formato cartaceo. Su Salerno, Giangaspero afferma: «Con le sua capacità di appuntato, può fare anche un lavoro di un maresciallo».
«Lui (Salerno, ndr) - ha detto ancora - può entrare nei terminali di un maresciallo, come potrebbe detrarre il fascicolo. Me lo disse lui: "Questo fascicolo te lo sto portando perché io l'ho scaricato». Tutto ciò per agevolare i Di Cosola. In cambio, dal 2012, avrebbero ottenuto denaro e benefit per circa 400mila euro.