30 ducati per un capolavoro immortale
Il "San Felice in Cattedra" di Lorenzo Lotto è di nuovo a San Domenico
sabato 7 febbraio 2015
10.09
Solo 30 ducati. Tanto è costato a notabili giovinazzesi il "San Felice in Cattedra", l'opera risalente al 1542 realizzata da Lorenzo Lotto, maestro dell'arte rinascimentale veneziana.
Ieri sera il rientro del dipinto nella chiesa di San Domenico, cuore nel cuore di una città che lo attendeva ed ha finalmente imparato ad amarlo, durante una conferenza-cerimonia voluta da don Pietro Rubini in collaborazione con il Museo Diocesano ed alla presenza di mons. Luigi Martella, vescovo della Diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi, Ruvo di Puglia. A raccontare la figura del celebre pittore veneto ed il percorso storico dell'opera ci ha pensato Fabrizio Vona, Soprintendente ai Beni Artistici di Napoli, chiarissimo e piacevole nella sua esposizione. Il documento chiave per attestare la datazione del dipinto è il "Libro di spese diverse", una sorta di diario contabile tenuto proprio da Lorenzo Lotto tra il 1538 ed il 1553 circa. L'opera, un tempo un trittico per una pala d'altare con Sant'Antonio da Padova e San Nicola da Tolentino, con in cima una Pietà, commissionato da «certi Domini de Juvenazo», costò quindi una cifra relativamente bassa e fu realizzata da giugno a dicembre del 1542.
Vona ha ricordato come nel 1897 fosse stato lo storico dell'arte lituano, naturalizzato statunitense, Bernard Berenson, a sdoganare quell'opera ed a recuperarla dall'oblio in cui era caduta dopo la chiusura al culto dell'omonima chiesa nel centro storico giovinazzese. Lo stesso Berenson, ha ricordato il Soprintendente di Napoli, scrisse che «alcuni anni or sono altri frammenti del trittico erano in mano ad un mercante bolognese». In realtà il 1542 pare esser stato un anno particolarmente prolifico per un Lorenzo Lotto ormai maturo, ma sempre solitario come il suo carattere imponeva. In quel periodo, infatti, il meraviglioso pittore veneto dipinse anche un'altra pala di grandissimo valore, "L'elemosina di Sant'Antonino", custodita nella sua Venezia all'interno della chiesa dei Santissimi Giovanni e Paolo.
«Il restauro (realizzato col contributo prezioso del Museo Diocesano di Molfetta, della Soprintendenza ai Beni Artistici di Bari nella persona di Rosanna Gnisci e dell'architetto Angelo Lanotte, ndr) - ha poi raccontato Vona - era sì necessario, ma il dipinto non era in rovina. Poteva anche restare lì dove era, ma in realtà il problema c'era eccome. Il telaio era stato attaccato dal tarlo». La meticolosa opera di restauro ha richiesto tempo, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti ed è oggi godibile nella navata sinistra della chiesa di piazza Vittorio Emanuele II. Le restauratrici della Soprintendenza barese, Angela Laterza ed Anna Scagliarini, sono risalite ai materiali per realizzare i colori. Il rosso parrebbe essere cinabro, mentre l'azzurro, tranne quello dell'anello che è di lapislazzuli, sembrerebbe azzurrite. Il tutto legato, con ogni probabilità, con olio di noce, rarissimo in Italia, dove si usava quello di lino, ma molto diffuso nel nord Europa. «Il che - ha evidenziato Vona - mette il Lotto in stretto contatto con le tecniche usate dei pittori di quei Paesi».
Il dipinto giovinazzese, già restaurato nel 1911 e nel 1951, è concepito quasi geometricamente, con più livelli sovrapposti e la veste di San Felice appare quasi senza pieghe. È lo stile a tratti solenne del Lotto maturo, a lungo accusato di essere vicino alla Riforma Protestante, dato il suo accentuato "pauperismo". Prima del Soprintendente del capoluogo partenopeo, aveva preso la parola Rosanna Carlucci, ricordando la storia dell'antica Chiesa di San Felice, di cui si ha notizia dal terzo secolo d.C., devastata da uno spaventoso incendio nel 1691. La chiesa venne chiusa al culto nel 1878 e poi venduta, nel 1890, dall'amministrazione ecclesiastica al Comune, che ne fece un mercato.
Per il sindaco Tommaso Depalma si tratta del «recupero della nostra identità», mentre monsignor Martella ha esortato a non lasciare chiusi «i tanti gioielli giovinazzesi. Le nuove generazioni - ha chiosato il prelato - non devono essere private del godimento della storia dell'arte». Un'affermazione forte, attesa da tempo in tutta la sua deflagrante chiarezza, in piena sintonia con quanto ricordato da Papa Francesco, che ha visto nell'arte un'ulteriore forma di evangelizzazione.
Ieri sera il rientro del dipinto nella chiesa di San Domenico, cuore nel cuore di una città che lo attendeva ed ha finalmente imparato ad amarlo, durante una conferenza-cerimonia voluta da don Pietro Rubini in collaborazione con il Museo Diocesano ed alla presenza di mons. Luigi Martella, vescovo della Diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi, Ruvo di Puglia. A raccontare la figura del celebre pittore veneto ed il percorso storico dell'opera ci ha pensato Fabrizio Vona, Soprintendente ai Beni Artistici di Napoli, chiarissimo e piacevole nella sua esposizione. Il documento chiave per attestare la datazione del dipinto è il "Libro di spese diverse", una sorta di diario contabile tenuto proprio da Lorenzo Lotto tra il 1538 ed il 1553 circa. L'opera, un tempo un trittico per una pala d'altare con Sant'Antonio da Padova e San Nicola da Tolentino, con in cima una Pietà, commissionato da «certi Domini de Juvenazo», costò quindi una cifra relativamente bassa e fu realizzata da giugno a dicembre del 1542.
Vona ha ricordato come nel 1897 fosse stato lo storico dell'arte lituano, naturalizzato statunitense, Bernard Berenson, a sdoganare quell'opera ed a recuperarla dall'oblio in cui era caduta dopo la chiusura al culto dell'omonima chiesa nel centro storico giovinazzese. Lo stesso Berenson, ha ricordato il Soprintendente di Napoli, scrisse che «alcuni anni or sono altri frammenti del trittico erano in mano ad un mercante bolognese». In realtà il 1542 pare esser stato un anno particolarmente prolifico per un Lorenzo Lotto ormai maturo, ma sempre solitario come il suo carattere imponeva. In quel periodo, infatti, il meraviglioso pittore veneto dipinse anche un'altra pala di grandissimo valore, "L'elemosina di Sant'Antonino", custodita nella sua Venezia all'interno della chiesa dei Santissimi Giovanni e Paolo.
«Il restauro (realizzato col contributo prezioso del Museo Diocesano di Molfetta, della Soprintendenza ai Beni Artistici di Bari nella persona di Rosanna Gnisci e dell'architetto Angelo Lanotte, ndr) - ha poi raccontato Vona - era sì necessario, ma il dipinto non era in rovina. Poteva anche restare lì dove era, ma in realtà il problema c'era eccome. Il telaio era stato attaccato dal tarlo». La meticolosa opera di restauro ha richiesto tempo, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti ed è oggi godibile nella navata sinistra della chiesa di piazza Vittorio Emanuele II. Le restauratrici della Soprintendenza barese, Angela Laterza ed Anna Scagliarini, sono risalite ai materiali per realizzare i colori. Il rosso parrebbe essere cinabro, mentre l'azzurro, tranne quello dell'anello che è di lapislazzuli, sembrerebbe azzurrite. Il tutto legato, con ogni probabilità, con olio di noce, rarissimo in Italia, dove si usava quello di lino, ma molto diffuso nel nord Europa. «Il che - ha evidenziato Vona - mette il Lotto in stretto contatto con le tecniche usate dei pittori di quei Paesi».
Il dipinto giovinazzese, già restaurato nel 1911 e nel 1951, è concepito quasi geometricamente, con più livelli sovrapposti e la veste di San Felice appare quasi senza pieghe. È lo stile a tratti solenne del Lotto maturo, a lungo accusato di essere vicino alla Riforma Protestante, dato il suo accentuato "pauperismo". Prima del Soprintendente del capoluogo partenopeo, aveva preso la parola Rosanna Carlucci, ricordando la storia dell'antica Chiesa di San Felice, di cui si ha notizia dal terzo secolo d.C., devastata da uno spaventoso incendio nel 1691. La chiesa venne chiusa al culto nel 1878 e poi venduta, nel 1890, dall'amministrazione ecclesiastica al Comune, che ne fece un mercato.
Per il sindaco Tommaso Depalma si tratta del «recupero della nostra identità», mentre monsignor Martella ha esortato a non lasciare chiusi «i tanti gioielli giovinazzesi. Le nuove generazioni - ha chiosato il prelato - non devono essere private del godimento della storia dell'arte». Un'affermazione forte, attesa da tempo in tutta la sua deflagrante chiarezza, in piena sintonia con quanto ricordato da Papa Francesco, che ha visto nell'arte un'ulteriore forma di evangelizzazione.